Il responsabile della sicurezza, intesa come disciplina giuridico-ingegneristica, ha storicamente cercato di modificare il contesto ambientale ove si svolgono i processi aziendali in conformità alle regole tecniche e di legge applicabili, preso atto del loro divenire; ma, nel migliore dei casi, si è riscontrata anche la tendenza a cercare di indirizzare in modo “programmato” i comportamenti delle persone, al fine di ridurre l’area di rischio connaturata con le attività svolte. Spesso, la Risorse Umane sono state lasciate a se stesse, contro ogni logica di buon senso e previsione di legge. Tutto ciò, come se le attività lavorative fossero statiche e prevedibili nella loro completezza: prive di variabilità. Si è registrato per anni lo sforzo, senz’altro nobile, da parte degli addetti alla sicurezza più vigili, di garantire dei processi a “rischio zero” per le Risorse Umane e per i beni che fanno parte del contesto analizzato. Un obiettivo impossibile, ma per l’appunto nobile nello spirito. Si è trattato di uno sforzo non mai coronato da vero successo, per la variabilità che caratterizza le attività umane. Ciò, in qualunque settore di applicazione: sia lavorativo, sia tipico della vita quotidiana. Alcuni contesti sono poi sovrapponibili, come, per esempio, quello della sicurezza nella guida dei veicoli, che su strada circolano a prescindere dalla destinazione d’uso, e che non fanno certo distinzioni di tipo in caso di incidente. Da qui la riflessione che la cultura della sicurezza dovrebbe essere una cultura “di vita”, prima ancora che lavorativa.
Per amore di verità, occorre dire che il numero degli infortuni con esiti letali o gravissimi, negli ultimi 25 anni, in Italia, è diminuito di oltre il 70% e ciò (fonte INAIL) è correlabile con il miglioramento nell’applicazione di tecnologie sicure. Ciò va correlato, necessariamente, anche con la alfabetizzazione delle Risorse Umane in materia di lavoro sicuro.
Recentemente sono giunti alla ribalta i cosiddetti “sistemi di gestione” della Salute e Sicurezza sul Lavoro e, nello scenario della loro applicazione che risale agli ultimi trent’anni, si è visto che anche in questo caso è stata posta maggiore attenzione all’aspetto tecnico-progettuale e di verifica sugli aspetti tipicamente giuridico-ingegneristici, piuttosto che sugli aspetti relativi al coinvolgimento delle Risorse Umane e della loro crescita professionale. Infatti, per una carenza culturale endemica, che in Italia è molto pesante, proprio l’attenzione all’educazione delle Risorse Umane alla salute e sicurezza è stata un “di cui” marginale dello sviluppo di tali strumenti. Si parlava di approccio giuridico: ecco allora la verifica dei meri adempimenti di legge. Perché a far meglio, occorre capirne!
Alcune ricerche statistiche, prodotte ancora dall’ INAIL, hanno evidenziato dei segnali incoraggianti in merito all’applicazione di tali strumenti organizzativi, ma non sono ancora state fatte analisi per valutare cosa non abbia funzionato nelle organizzazioni ove, comunque, si sono continuati a registrare infortuni con esiti gravi o gravissimi, se non mortali. Il timore è che, passata la fase dell’entusiasmo, della grande attenzione legata spesso alle certificazioni, molte attività di miglioramento e di gestione siano divenute più cartacee, piuttosto che vissute. Oggi siamo difronte a uno zoccolo duro di infortuni con esiti gravi e gravissimi e anche mortali, che non si riesce ad abbattere. Da un lato la possibile imbiancatura dei sepolcri a scapito dei cosiddetti sistemi di gestione, che tendono all’attrazione fatale verso la natura cartacea, dall’altro il paradigma sinora vincente dell’approccio giuridico-ingegneristico, che sta mostrando dei limiti connaturati con lo strumento stesso, troppo distante dalle Risorse Umane.
La distanza cui si fa riferimento è quella che separa una buona progettazione di un impianto, di una macchina, di un ambiente di lavoro, dalla consapevolezza dei rischi residui che anche la migliore tecnologia non potrà mai eliminare. Ciò, proprio per la presenza delle Risorse Umane, con il carico di variabilità comportamentale che le contraddistingue. Paradossalmente, stante la natura del lavoro, che nasce con l’essere umano e per l’essere umano, a cavallo degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso si è anche cercato di creare dei processi e delle fabbriche totalmente automatizzate. Sia negli Stati Uniti, sia in Italia, che volle seguire la moda nata a Detroit, tali progetti sono falliti. L’essere umano si è dimostrato l’elemento di flessibilità irrinunciabile, per rendere efficaci ed efficienti gli ambienti di lavoro.
Come fare, allora, per ridurre in modo significativo il “rischio” che caratterizza il lavoro? Ove per “rischio” si deve intendere la cumulata coesistente di molteplici rischi legati proprio alle tecnologie, sostanze, procedure e comportamenti?
Una buona riflessione è quella sul fatto che, nonostante tutte le mitigazioni tecniche possibili, dei rischi residui esisteranno sempre. Quando saranno accettabili? Potremmo rispondere con una frase salomonica: “quando saremo in grado di gestirli”. Da qui, un’ulteriore riflessione: se tutto lo scibile ingegneristico e organizzativo, nonché giuridico, è già stato speso e, comunque, il rischio residuo permane, allora dove possiamo agire?
La risposta è palese: sulle Risorse Umane e sui comportamenti che le stesse hanno sui luoghi di lavoro. Perché le Risorse Umane sono le uniche entità dotate di flessibilità intelligente atte a governare, con i propri comportamenti sicuri, il rischio residuo.
Da cosa derivano i comportamenti? Specialmente quelli insicuri? Ammesso che esista una ideazione, progettazione e formalizzazione del lavoro e dei processi, perché l’essere umano devia da ciò che è stabilito? La risposta è proprio nel fatto che ciò che viene ideato, progettato e descritto in procedure o istruzioni non sempre va come previsto. Altrimenti esisterebbero proprio le fabbriche senza impiego di Risorse Umane‼ L’essere umano può apprendere, ma non tanto sui banchi di scuola, ma dall’esperienza. Proprio così, anche i comportamenti possono essere fortemente influenzati con una formazione e un addestramento, integrati, tali da creare una cultura attiva e vigile, basata sul coinvolgimento attivo e sul feedback. Occorre riconoscere e incoraggiare i comportamenti corretti e far ragionare su quelli errati.
Sia l’essere umano, sia gli altri esseri viventi, si comportano in base a dei bisogni, ma non in modo casuale, bensì sulla base di paradigmi di esperienza. Solo questa, alla fine, è il vero riferimento di ogni essere vivente. La capacità di vivere in anticipo, come fosse un film in fase di proiezione, le proprie azioni, che nascono dal ricordo dell’esperienza e della valutazione che se ne è fatta (il significato personale). Provate a chiedere a una persona che si è ustionata sul fuoco di metterci di nuovo la mano sopra… risposta ovvia e scontata: non lo farà, se non con le necessarie protezioni. Tale persona vedrà e sentirà in anticipo le sensazioni spiacevoli del dolore e quelle tristi delle conseguenze di tutti i tipi, anche sociali. Tutto in un attimo, spesso inconsapevole, di elaborazione cognitiva della realtà. Da cui, l’attenzione al comportamento corretto. Questa semplice evidenza deve farci riflettere sul potere e sulla potenza dell’esperienza come fattore di apprendimento. L’esperienza vissuta direttamente, come “conseguenza” comportamentale in grado di rinforzare positivamente un comportamento, o di indirizzare verso un comportamento diverso. Ma non possiamo aspettare che una persona subisca un infortunio perché possa capire. In alcuni contesti culturali, l’infortunio, l’amputazione, sono addirittura “cerimonie di iniziazione” alla maestria. Una bestialità che nasce da una distorsione culturale, anch’essa figlia dell’ignoranza.
Un antico adagio attribuito a Confucio recita: “dimmi e dimenticherò; fammi vedere e ricorderò; coinvolgimi e capirò!”.
Tutti noi possiamo dire di aver sperimentato questa verità pratica di persona. Solo con il coinvolgimento attivo siamo in grado di fissare le sensazioni, il vissuto, con il suo portato di emozioni e di significato. Questo processo si chiama proprio “attribuzione del significato personale” alle esperienze e tale significato entrerà a far parte del nostro bagaglio di conoscenza, nella nostra mappatura della realtà.
Allora, per un adulto, già carico di altri significati personali, derivanti da esperienze diverse, vissute in contesti fisici e culturali diversi, talora divergenti da quello che vogliamo realizzare (cultura della sicurezza), diventerà indispensabile una formazione non solo teorica, ma soprattutto esperienziale, tale da influire sulla propria percezione della realtà, sulla propria mappa delle esperienze di vita lavorativa e vissuta e, sulla base di adeguati rinforzi positivi e negativi anche sui comportamenti. Questa è la via maestra al cambiamento partecipato degli “input” del pensiero e dell’azione, altrimenti chiamati “antecedenti” dalla psicologia comportamentale.
Ciò è destinato a influenzare il modo di intendere la sicurezza anche nella vita privata, con l’arricchimento del modo di intendere e comprendere la realtà.
Da quanto appena accennato, se ne trae che dobbiamo progettare la formazione in modo che possa incidere sulle esperienze, vivendo e valutando in modo oggettivo il proprio e l’altrui comportamento, in modo partecipato, in modo da creare significati personali orientati alla prudenza e alla consapevole adozione di comportamenti sicuri. In situazioni standard, si tratterà di comportamenti ideati, progettati e formalizzati (ad es. il corretto uso di una cintura di sicurezza). Negli altri casi, quelli non prevedibili a tavolino, si tratterà di comportamenti che, involontariamente saranno ricondotti alla mappatura della realtà, divenuta bagaglio di significati personali orientati alla sicurezza. La probabilità che, in quelle condizioni, vengano operate le scelte più adeguate per la salute e sicurezza, sarà direttamente proporzionale alla vastità e dettaglio della nuova mappa della realtà, nata da una formazione ben progettata, esperienziale e calata nella realtà dei processi esistenti.
post comments
Together We Rise: A Campaign for Everyone